Sentenza n. 116 del 2023

SENTENZA N. 116

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 409, commi 4 e 5, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 411, commi 1 e 1-bis, cod. proc. pen., promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Nola nel procedimento penale a carico di A. F., con ordinanza del 20 giugno 2022, iscritta al n. 103 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 maggio 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 10 maggio 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 20 giugno 2022, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Nola ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 76, 101 (recte: 101, secondo comma), 111, secondo comma, e 117 (recte: 117, primo comma,) della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 14, (recte: 14, terzo comma,) lettera c), del Patto internazionale sui diritti civili e politici – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 409, commi 4 e 5, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 411, commi 1 e 1-bis, cod. proc. pen., «nella parte in cui non consentono al giudice per le indagini preliminari, a fronte di una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, di pronunciare ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto, previa fissazione dell’udienza camerale, sentite le parti e stante la mancata opposizione dell’indagato».

1.1.– Il rimettente è investito, nella propria qualità di giudice per le indagini preliminari, di una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato nei confronti di A. F., sottoposto a procedimento penale in seguito a querela della persona offesa per essersi introdotto e trattenuto all’interno di una strada privata di pertinenza di quest’ultima, nonostante la sua contraria volontà.

Non condividendo la valutazione del pubblico ministero sulla infondatezza della notizia di reato, il rimettente ha fissato udienza camerale ai sensi dell’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., nella quale, assente il pubblico ministero, ha prospettato alla persona sottoposta alle indagini, al suo difensore e al difensore della persona offesa la possibilità di pronunciare ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto. A tale possibile esito «entrambe le parti, rappresentate dai loro difensori, non si opponevano».

Ad avviso del giudice a quo, la condotta di A. F. integrerebbe in effetti una violazione di domicilio ai sensi dell’art. 614 del codice penale. Nel caso di specie sussisterebbero però i presupposti della particolare tenuità dell’offesa e della non abitualità del comportamento, atti a escludere la punibilità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., poiché la violazione di domicilio, avvenuta senza violenza o minaccia alla persona, si sarebbe protratta per un esiguo lasso temporale e sarebbe stata realizzata da un soggetto incensurato.

Il rimettente assume tuttavia di non poter fare applicazione della causa di non punibilità in parola, poiché il combinato disposto degli artt. 409, commi 4 e 5, e 411, commi 1 e 1-bis, cod. proc. pen., nell’interpretazione offertane dalla giurisprudenza di legittimità, gli impedirebbe di disporre l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, a fronte di una richiesta del pubblico ministero di archiviazione per infondatezza della notizia di reato. In particolare, secondo la Corte di cassazione il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, pronunciato ai sensi dell’art. 411, comma 1, cod. proc. pen., sarebbe nullo se emesso senza l’osservanza della speciale procedura prevista al comma 1-bis di detta norma (che presuppone una richiesta in tal senso del pubblico ministero e l’avviso all’indagato e alla persona offesa), non essendo le disposizioni generali contenute negli artt. 408 e seguenti cod. proc. pen. idonee a garantire il contraddittorio dell’indagato e della persona offesa sulla configurabilità della causa di non punibilità (sono richiamate Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 16 gennaio-13 febbraio 2018, n. 6959; sezione quinta penale, sentenza 15 giugno-5 settembre 2017, n. 40293; sezione quinta penale, sentenza 7 luglio-5 settembre 2016, n. 36857).

A fronte di tale orientamento della giurisprudenza di legittimità, sarebbe impraticabile una diversa interpretazione della disciplina censurata. Né si potrebbe ipotizzare la restituzione degli atti al pubblico ministero, con invito a reiterare la richiesta di archiviazione, questa volta ai sensi dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., trattandosi di soluzione «non espressamente prevista dal legislatore, né sollecitata dalla giurisprudenza di legittimità», e comunque problematica.

Sarebbe dunque necessario promuovere l’incidente di costituzionalità onde poter procedere all’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto: donde la rilevanza delle questioni sollevate.

1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente osserva anzitutto che la previsione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. costituirebbe «l’attuazione dei principi, di rango costituzionale, di sussidiarietà (o extrema ratio) del diritto penale e di proporzionalità» e realizzerebbe esigenze di deflazione processuale (è citata la relazione illustrativa al decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67», che ha introdotto nel codice penale l’art. 131-bis).

L’impossibilità di pronunciare ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto, a fronte di una richiesta del pubblico ministero di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, sarebbe allora «in contrasto con le finalità sostanziali e processuali poste a fondamento dell’istituto» di cui all’art. 131-bis cod. pen., e risulterebbe «contraria ai principi di uguaglianza e proporzionalità (art. 3 Cost.), di responsabilità per il fatto e personalità della responsabilità penale (articoli 25, comma 2 e 27, comma 1, Cost.), della finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3 Cost.), nonché di ragionevolezza (art. 3 Cost.), anche in riferimento ai principi e criteri direttivi della legge delega (art. 76 Cost.), di ragionevole durata del processo (art. 101 [recte: 111] Cost. e 6 CEDU, per il tramite dell’art. 117 Cost.) e di soggezione dei giudici esclusivamente alla legge (art. 101 Cost.)».

1.2.1.– La disciplina censurata lederebbe anzitutto gli artt. 3, 27, primo e terzo comma, e 76 Cost., giacché precluderebbe al GIP di operare, in sede di udienza camerale sulla richiesta di archiviazione, «un vaglio individualizzante del singolo e irripetibile fatto storico portato alla sua attenzione», costringendolo ad «imbastire un processo finalizzato all’applicazione di una pena virtualmente sproporzionata nell’an ancor prima che nel quantum, poiché da applicare ad un fatto che, in base ai criteri generali fissati dal medesimo legislatore, non ne è invece “bisognoso”»; con conseguente violazione «non soltanto del principio di uguaglianza, sub specie di ragionevolezza e proporzione, ma anche dei principi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena» (sono richiamate le sentenze n. 102 del 2020, n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 313 del 1990 di questa Corte).

La lesione dei richiamati principi costituzionali si produrrebbe già in sede di udienza camerale ex art. 409 cod. proc. pen., in quanto il GIP, pur non essendo chiamato a irrogare alcuna pena, non potrebbe «“disapplicare” un virtuale trattamento sanzionatorio nei confronti dell’indagato, che nel caso concreto risulterebbe sproporzionato» e dovrebbe invece imporre la celebrazione nei confronti dell’imputato di «un “immeritato processo” mediante il ricorso all’imputazione coatta».

La «potenziale applicazione di una pena, anche minima (mediante un processo, anche breve) all’autore di un illecito considerato di particolare tenuità» costituirebbe «una reazione sproporzionata dell’ordinamento, che sacrifica e banalizza la libertà personale dell’individuo, dichiarata “inviolabile” dall’art. 13 Cost., a fronte di fatti che non dimostrano alcun reale bisogno di pena: la sua inflizione (peraltro appannaggio di un giudice “diverso” da quello chiamato a valutare la richiesta di archiviazione del PM) realizzerebbe, pertanto, un ingiustificato, inutile e intollerabile sacrificio della libertà personale» (è citata la sentenza n. 364 del 1988 di questa Corte).

Tali precetti costituzionali costituirebbero «il plafond dei principi e criteri direttivi» della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), con conseguente violazione, altresì, dell’art. 76 Cost.

1.2.2.– La disciplina censurata, come interpretata dal diritto vivente, presenterebbe poi profili di irragionevolezza intrinseca, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.

L’impossibilità per il GIP di procedere all’archiviazione per particolare tenuità del fatto, allorché né l’imputato, né la persona offesa abbiano esposto ragioni di dissenso a tale esito nel corso dell’udienza camerale, costituirebbe il frutto di un’esegesi non solo «fondamentalmente formalista», ma anche manifestamente irrazionale e discriminatoria, introducendo un «automatismo che costringe il giudice per le indagini preliminari a procedere ad un’imputazione coatta, del tutto dissonante rispetto alle esigenze processuali poste a base dell’istituto»; e ciò anche in considerazione della circostanza che, nella procedura di cui all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., le parti, pur dovendo essere informate della richiesta del pubblico ministero e potendo presentare opposizione, non possono opporre alcun veto al potere del giudice di provvedere ex art. 131-bis cod. pen.

1.2.3.– Il plesso normativo sottoposto al vaglio di questa Corte produrrebbe altresì irragionevoli disparità di trattamento rispetto alle ipotesi in cui, nelle successive fasi processuali, la pronuncia ex art. 131-bis cod. pen. può essere adottata previa audizione delle parti in camera di consiglio (in sede predibattimentale, ai sensi dell’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen.) e addirittura d’ufficio (sono citate, con riferimento al giudizio di legittimità, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 9 maggio-5 giugno 2017, n. 27752; sezione sesta penale, sentenza 16 dicembre 2016-17 febbraio 2017, n. 7606; sezione quinta penale, sentenza 2 luglio 2015-11 febbraio 2016, n. 5800), senza necessità di richiesta conforme da parte del pubblico ministero.

Ancora, la preclusione a disporre l’archiviazione del procedimento ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. imporrebbe al GIP di trattare in modo uguale situazioni disomogenee, segnatamente disponendo la celebrazione del processo sia per fatti di particolare tenuità, sia per fatti «connotati da un disvalore oggettivo effettivamente superiore alla soglia della particolare tenuità dell’offesa e, come tali, meritevoli di accertamento processuale e di eventuale sanzione».

Fatti analoghi, caratterizzati da «paragonabili bassi gradi di offesa e di colpevolezza» sarebbero invece trattati diversamente a seconda dell’iter seguito dal pubblico ministero, potendo essere dichiarati non punibili, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. solo ove questi abbia proceduto nelle forme di cui all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., e non anche ove la pubblica accusa abbia formulato una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato.

Tanto l’«irragionevole trattamento differenziato di situazioni omogenee» quanto l’«irragionevole trattamento omogeneo di situazioni differenti» darebbero dunque luogo ad un ulteriore contrasto con l’art. 3 Cost.

1.2.4.– Il combinato disposto censurato produrrebbe, ancora, una «evidente distorsione nell’assetto ordinamentale dei rapporti tra PM e giudicante», con conseguente violazione dell’art. 101, secondo comma, Cost.

Pur spettando al giudice l’apprezzamento della sussistenza delle condizioni indicate dall’art. 131-bis cod. pen., per effetto del diritto vivente tale prerogativa sarebbe indebitamente «filtrata dalla preventiva scelta del PM che, adottando un iter procedimentale anziché un altro nella procedura di archiviazione, può impedire al giudice per le indagini preliminari una completa disamina della notitia criminis e delle conseguenze giuridiche» che ne derivano. Ciò in contraddizione con la stessa giurisprudenza di legittimità, che, nel delineare i rapporti istituzionali e funzionali tra ufficio di procura e ufficio del GIP, avrebbe «definitivamente escluso una logica di formalistica corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato» (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 maggio-17 giugno 2005, n. 22909).

1.2.5.– La disciplina censurata si porrebbe, infine, in contrasto con il canone di ragionevole durata del processo, tutelato tanto dall’art. 111, secondo comma, Cost., quanto dall’art. 6 CEDU, dall’art. 47 CDFUE e dall’art. 14, terzo comma, lettera c), PIDCP.

La ragionevole durata del processo costituirebbe un vero e proprio diritto di tutte le parti (sono richiamate le sentenze n. 88 del 2018 e n. 78 del 2002 di questa Corte), che spetta non solo all’imputato, ma anche all’indagato (sono citate la sentenza n. 184 del 2015 nonché le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 15 luglio 1982, Eckle contro Germania, paragrafo 73; 10 dicembre 1982, Corigliano contro Italia, paragrafo 34; 5 ottobre 2017, Kaleja contro Lettonia, paragrafo 36; 20 giugno 2019, Chiarello contro Germania, paragrafo 44); diritto cui corrisponderebbe l’obbligo del legislatore di «porre le condizioni ordinamentali, organizzative e processuali più idonee al conseguimento degli obiettivi connessi ad un congruo accertamento processuale» (è richiamata la sentenza della grande camera 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafi da 183 a 187).

Nel caso di specie, il GIP non potrebbe disporre l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, benché l’indagato non si sia opposto a tale decisione e la persona offesa sia stata sentita, e dovrebbe ordinare l’imputazione coatta «imponendo, di fatto, il processo».

In contrasto con le esigenze di deflazione e di ragionevole durata del processo, l’imputato potrebbe dunque essere prosciolto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. solo nelle successive fasi processuali, nelle quali egli potrebbe addirittura vedersi irrogare la sanzione penale, «nonostante un vaglio giurisdizionale di segno contrario» operato dal GIP in sede di decisione sulla richiesta di archiviazione.

A tale situazione il rimettente non potrebbe, d’altra parte, porre rimedio restituendo gli atti al pubblico ministero e «invitandolo» a reiterare la richiesta di archiviazione nelle forme di cui all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen.

Un simile iter procedimentale, non previsto dal codice di rito, non risolverebbe i dubbi di costituzionalità della disciplina censurata, in quanto «si sostanzierebbe in una irragionevole protrazione del procedimento a carico dell’indagato», in violazione dell’art. 111, secondo comma, Cost.; e non escluderebbe il rischio che, a seguito della restituzione degli atti, il pubblico ministero si determini in senso diverso da quanto suggerito dal GIP, reiterando la richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato. Né tale soluzione potrebbe dirsi funzionale a tutelare il diritto al contraddittorio della persona offesa, posto che tale diritto – salvaguardato con l’audizione nell’udienza camerale – non includerebbe comunque un potere di veto sull’archiviazione per particolare tenuità del fatto.

1.3.– Ad avviso del giudice a quo, l’auspicato accoglimento delle questioni sollevate, oltre a porre rimedio ai denunciati vulnera costituzionali, «costituirebbe, in una prospettiva di analisi economica del diritto, una proattiva innovazione giuridica che, ben lungi dall’infirmare l’assetto procedimentale delineato dal legislatore per l’istituto della particolare tenuità del fatto, vi si innesterebbe armonicamente, potenziandone l’applicazione». E invero, al meccanismo di archiviazione per particolare tenuità del fatto previsto dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. si affiancherebbe «in via ulteriore e aggiuntiva» la possibilità per il GIP, a fronte di una richiesta del pubblico ministero di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, di disporre l’archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., ove questi la ritenga «maggiormente confacente alla qualificazione giuridica del fatto e della notitia criminis portati alla sua attenzione».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la censura del rimettente fondata sull’art. 76 Cost. sia dichiarata inammissibile – per carenza di motivazione circa il contrasto della disciplina censurata con il parametro – e che le restanti censure siano dichiarate non fondate.

2.1.– Ad avviso dell’interveniente, l’ipotesi di archiviazione disciplinata dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. sarebbe connotata, a differenza delle altre previste dal codice di rito, dalla sussistenza di tutti i presupposti per l’esercizio dell’azione penale, il che giustificherebbe l’iscrizione della relativa pronuncia nel casellario giudiziale. La «radicale eterogeneità» dell’archiviazione per particolare tenuità del fatto rispetto alle altre ipotesi di archiviazione determinerebbe la «palese infondatezza» della censura di violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevolezza della disciplina censurata.

2.2.– La scelta legislativa di subordinare l’adozione di un provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto all’iniziativa del pubblico ministero sarebbe «imposta dalla necessità di conformare la disciplina processuale al principio […] di cui all’art. 112 della Costituzione, che attribuisce il monopolio dell’azione penale al pubblico ministero»; il che dimostrerebbe l’«assoluta inconsistenza» della censura di violazione dell’art. 101, secondo comma, Cost.

Né rileverebbe che, in fase di giudizio, sia possibile pronunciare sentenza di proscioglimento indipendentemente da una richiesta in tale senso del pubblico ministero, essendo la fase introdotta dalla richiesta di archiviazione precedente e preordinata ad accertare la sussistenza dei presupposti dell’esercizio dell’azione penale.

2.3.– Del pari inconsistenti sarebbero le censure di violazione degli artt. 13 e 27 Cost., atteso che la disciplina censurata non determinerebbe necessariamente l’applicazione della pena a un fatto di particolare tenuità. E invero, al rigetto della richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato potrebbe seguire una richiesta del pubblico ministero di archiviazione per particolare tenuità del fatto, correttamente formulata ai sensi dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., ovvero, nell’ipotesi di successivo esercizio dell’azione penale, il proscioglimento in sede di giudizio ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.

2.4.– Sarebbe infine insussistente il dedotto vulnus all’art. 111, secondo comma, Cost.

Da un lato, l’osservanza del canone di ragionevole durata non potrebbe «di per sé» giustificare la compressione di altri principi costituzionali, tra cui, in specie, quello del monopolio dell’azione penale in capo al pubblico ministero, sancito dall’art. 112 Cost.

Dall’altro lato, anche la possibilità, auspicata dal rimettente, di pronunciare ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto a fronte di una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato comporterebbe un allungamento dei tempi del procedimento, attesa la necessità di garantire alle parti processuali il contraddittorio in ordine a tale esito, in forme analoghe a quelle previste dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., e dunque attraverso «una serie di adempimenti aggiuntivi (quali, ad esempio, l’avviso alla persona offesa ed alla persona sottoposta alle indagini che il giudice prospetterà alle parti, nel corso di un’udienza camerale, la questione della sussistenza dei presupposti per poter addivenire a siffatta archiviazione, precisando che nel termine di dieci giorni, possono prendere visione degli atti e presentare opposizione a tale archiviazione)».

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il GIP del Tribunale di Nola ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 76, 101 secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, all’art. 47 CDFUE e all’art. 14, terzo comma, lettera c), PIDCP – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 409, commi 4 e 5, cod. proc. pen., in combinato disposto con l’art. 411, commi 1 e 1-bis, cod. proc. pen., «nella parte in cui non consentono al giudice per le indagini preliminari, a fronte di una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, di pronunciare ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto, previa fissazione dell’udienza camerale, sentite le parti e stante la mancata opposizione dell’indagato».

Conviene sin d’ora precisare che le questioni così formulate hanno ad oggetto, in realtà, il diritto vivente che il rimettente desume da una serie di pronunce della Corte di cassazione, nelle quali è stata rilevata la nullità del provvedimento del GIP che, investito di una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato ex art. 408 cod. proc. pen., disponga – in esito all’udienza di cui all’art. 409, comma 2, cod. proc. pen. – l’archiviazione per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. Proprio tale diritto vivente si porrebbe, in effetti, in contrasto con i molti parametri costituzionali e interposti appena menzionati.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della sola questione sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. per carenza di motivazione.

L’eccezione è fondata, in assenza di qualsiasi confronto, da parte del rimettente, con i criteri dettati dalla legge n. 67 del 2014, in attuazione della quale è stata introdotta, con il d.lgs. n. 28 del 2015, la disciplina sostanziale e processuale della non punibilità per particolare tenuità del fatto.

La relativa questione deve, pertanto, essere dichiarata inammissibile.

3. – Inammissibili sono, inoltre, le censure formulate in riferimento agli artt. 13 e 25, secondo comma, Cost., stante la mancanza di un’adeguata e autonoma motivazione delle ragioni per cui il combinato disposto censurato violerebbe i parametri indicati.

4.– Inammissibili per inconferenza del parametro sono, infine, le censure formulate in riferimento all’art. 101, secondo comma, Cost. (punto 1.2.4. del Ritenuto in fatto).

Ad avviso del rimettente, il combinato disposto censurato, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, violerebbe il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, precludendogli di apprezzare liberamente la sussistenza dei requisiti della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. e vincolandolo, invece, alla previa valutazione del pubblico ministero che si sia determinato a chiedere l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato.

Come recentemente ribadito da questa Corte (ordinanza n. 28 del 2023), tuttavia, il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge è posto, «tra l’altro, a presidio del principio dell’indipendenza (cosiddetta “esterna”) del giudice da ogni altro potere dello Stato, così come della sua indipendenza (cosiddetta “interna”) da tutti gli altri giudici, dai quali si distingue soltanto per diversità di funzioni ma rispetto ai quali non si trova in vincolo di soggezione gerarchica». Mai però si è ritenuto «che il principio dell’indipendenza “interna” del giudice osti a che la sua potestas iudicandi sia delimitata, in conformità alla legge processuale vigente, da provvedimenti di altri giudici, ovvero da atti di altri soggetti», essendo anzi «del tutto fisiologico […] che il thema decidendum in ogni processo sia determinato e circoscritto da atti di soggetti diversi dal giudice (come le domande e le eccezioni delle parti nel processo civile, i motivi di ricorso nel processo amministrativo, l’imputazione formulata dal pubblico ministero ed eventualmente modificata dal decreto del GUP che dispone il giudizio nel processo penale), e che unicamente su tale thema decidendum il giudice sia chiamato ad esprimersi». Più in generale, ha concluso la Corte, «si deve escludere che possa prodursi un vulnus all’art. 101, secondo comma, Cost. in presenza di vincoli alla potestas iudicandi del singolo giudice stabiliti dalla legge processuale, che è anch’essa parte integrante di quella “legge” a cui il giudice è soggetto in forza della previsione costituzionale in parola».

Le medesime considerazioni valgono a escludere già in limine, nel caso ora all’esame, che il rimettente possa dolersi, al metro dell’art. 101, secondo comma, Cost., del vincolo che deriverebbe alla propria potestas decidendi dalle determinazioni del pubblico ministero circa l’esercizio dell’azione penale, riservate allo stesso pubblico ministero dal sistema processuale vigente (infra, punto 6.2.2.).

5.– Prima di esaminare il merito delle rimanenti censure, è necessario succintamente ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale che ne costituisce lo sfondo.

5.1.– Nel testo vigente ratione temporis alla data dell’ordinanza di rimessione, l’art. 408 cod. proc. pen. prevedeva in via generale che il pubblico ministero richiedesse l’archiviazione al GIP allorché ritenesse infondata la notizia di reato. In seguito alle modifiche apportate dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonche´ in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), il pubblico ministero è oggi tenuto a chiedere l’archiviazione «[q]uando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca».

A fronte di tale richiesta del pubblico ministero, il GIP può, ai sensi dell’art. 409, comma 1, cod. proc. pen., disporre de plano, con decreto motivato, l’archiviazione. Qualora invece ritenga di non accogliere la richiesta, ovvero quando sia presentata opposizione da parte della persona offesa (art. 410 cod. proc. pen.), egli deve invece fissare, ai sensi dell’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., udienza in camera di consiglio, facendone dare avviso al pubblico ministero, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa.

In esito a tale udienza, il GIP potrà alternativamente: a) accogliere la richiesta di archiviazione; b) disporre che il pubblico ministero compia nuove indagini; o ancora c) disporre che il pubblico ministero formuli l’imputazione (art. 409, commi 4 e 5, cod. proc. pen.).

5.2.– Una speciale disciplina è stata introdotta dal d.lgs. n. 28 del 2015 in materia di archiviazione per particolare tenuità del fatto.

Ai sensi dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., il pubblico ministero che ritenga il fatto di reato sussistente, ma meritevole della causa di non punibilità in parola, presenta al GIP richiesta di archiviazione dandone avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, avvertendole della possibilità di presentare opposizione avverso tale richiesta. La possibilità di opposizione della persona sottoposta alle indagini, non prevista allorché l’archiviazione sia richiesta per insussistenza del fatto, si spiega qui, evidentemente, in ragione degli effetti pregiudizievoli per l’interessato prodotti da una tale archiviazione, destinata a essere iscritta nel casellario giudiziale (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 30 maggio-24 settembre 2019, n. 38954) e preclusiva di una nuova concessione della causa di non punibilità.

In assenza di opposizione, o nel caso in cui essa sia inammissibile, il giudice potrà, alternativamente, accogliere con decreto motivato la richiesta, e per l’effetto disporre l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, ovvero restituire gli atti al pubblico ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dei già esaminati commi 4 e 5 dell’art. 409 cod. proc. pen.

Nel caso invece in cui sia proposta opposizione, il GIP procederà nelle stesse forme indicate nell’art. 409 cod. proc. pen., decidendo con ordinanza – e dunque disponendo l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, oppure restituendo gli atti al pubblico ministero perché proceda, se del caso, a nuove indagini ovvero a formulare l’imputazione.

5.3.– La legge non disciplina espressamente l’ipotesi in cui pubblico ministero e GIP convergano sull’esito di archiviazione della notizia di reato, ma ritengano l’uno che essa debba fondarsi sull’infondatezza tout court della notizia (ovvero, oggi, sull’impossibilità di formulare una ragionevole previsione di condanna), e l’altro che un reato sia stato bensì commesso, ma sia di particolare tenuità e per tale ragione risulti non punibile in forza dell’art. 131-bis cod. pen.

La Corte di cassazione ha escluso, in proposito, che debba ritenersi abnorme il provvedimento con cui il GIP, investito di una richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., abbia invece disposto l’archiviazione per infondatezza della notitia criminis, e in particolare per non essere il fatto previsto dalla legge come reato (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 13 settembre-7 ottobre 2019, n. 41104).

Nel caso opposto in cui il pubblico ministero abbia richiesto l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato, la giurisprudenza di legittimità – come esattamente osservato dal rimettente – appare invece compatta nel non riconoscere al GIP la possibilità di accogliere la richiesta sotto il diverso profilo della particolare tenuità del fatto di reato, comunque ritenuto sussistente; dovendo anzi un tale provvedimento ritenersi nullo.

Già in una pronuncia del 2016 la Corte di cassazione è pervenuta a tale soluzione, in accoglimento di un ricorso promosso da una persona indagata contro un’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità dell’offesa pronunciata in esito all’udienza ex art. 409, comma 2, cod. proc. pen. Il giudice di legittimità ha, in particolare, ritenuto che l’archiviazione per particolare tenuità del fatto deve essere necessariamente preceduta, ai sensi dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., da una conforme richiesta del pubblico ministero, la quale deve essere portata a conoscenza della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa (quest’ultima anche laddove non ne abbia fatto esplicita richiesta ai sensi dell’art. 408, comma 2, cod. proc. pen.), in modo che, all’eventuale udienza in camera di consiglio, il contraddittorio fra le parti possa svolgersi proprio su tale questione (sentenza n. 36857 del 2016).

Tale principio di diritto è stato poi confermato in varie altre pronunce della Cassazione, originate da ricorsi promossi ora dalla persona sottoposta a indagini (sentenze n. 6959 del 2018 e n. 40293 del 2017), ora dalla persona offesa (sezione sesta penale, sentenza 14 febbraio-7 marzo 2018, n. 10455), con la precisazione che l’invito del giudice alle parti a prendere in esame anche la possibilità di un’archiviazione per particolare tenuità del fatto, rivolto oralmente nel corso dell’udienza camerale disposta a seguito dell’opposizione alla richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, non può considerarsi equipollente alla richiesta del pubblico ministero ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. (sentenza n. 6959 del 2018). In ciascuna di tali pronunce si è inoltre ribadita la cogenza dello schema procedimentale ordinario, che il GIP è tenuto a seguire nel caso in cui non condivida la valutazione del pubblico ministero di infondatezza della notizia di reato: il GIP dovrà restituire gli atti al pubblico ministero ai sensi dei commi 4 e 5 dell’art. 409 cod. proc. pen., affinché compia nuove indagini, formuli l’imputazione, ovvero valuti la possibilità di richiedere egli stesso l’archiviazione per particolare tenuità del fatto con le modalità previste dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., informando così le parti di tale possibile esito processuale e consentendo loro di esercitare la pienezza del contraddittorio su questo specifico profilo.

6.– Con due distinti gruppi di censure (punti 1.2.2. e 1.2.5. del Ritenuto in fatto), che conviene esaminare congiuntamente per primi, il rimettente dubita della compatibilità di tale diritto vivente con i principi di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e di ragionevole durata del processo, quest’ultimo sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dai corrispondenti parametri sovranazionali, rilevanti nell’ordinamento nazionale in forza dell’art. 117, primo comma, Cost.

In sostanza, il giudice a quo si duole dell’irragionevolezza di una interpretazione della disciplina vigente che impone la restituzione degli atti al pubblico ministero, e dunque una regressione del procedimento, pur a fronte della mancata opposizione delle parti a un esito processuale – l’archiviazione per particolare tenuità del fatto – prospettato loro dal GIP nel corso dell’udienza di cui all’art. 409, comma 2, cod. proc. pen. Tale regressione determinerebbe, d’altra parte, l’inutile dilazione di un procedimento che potrebbe essere direttamente definito dal GIP, con conseguente pregiudizio all’interesse – costituzionalmente e convenzionalmente tutelato – della ragionevole durata del processo.

Le censure non sono fondate.

6.1.– Rammenta, invero, giustamente il rimettente che, già all’indomani della riforma dell’art. 111 Cost., questa Corte ha affermato che la ragionevole durata del processo «è oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello ad un giudizio equo e imparziale» (sentenza n. 78 del 2002, punto 3 del Considerato in diritto).

Più recentemente, questa stessa Corte ha avuto modo di riconoscere – con riferimento, in quell’occasione, al giudizio di sorveglianza – che corrisponde a un «preciso dovere costituzionale» per il legislatore conformare la disciplina vigente all’obiettivo di assicurare una sollecita definizione dei processi, dal momento che «[l]a ragionevole durata è un connotato identitario della giustizia del processo» (sentenza n. 74 del 2022, punto 5.1. del Considerato in diritto).

Un tale dovere non può non vincolare in linea di principio anche la giurisprudenza, nella propria attività di interpretazione delle disposizioni legislative in materia processuale, sì da evitare letture il cui effetto sia unicamente quello di rallentare la definizione dei procedimenti, senza alcuna apprezzabile utilità in termini di tutela effettiva degli interessi delle parti o della collettività.

Tuttavia, questa Corte ha anche osservato come «la nozione di “ragionevole” durata del processo (in particolare penale) sia sempre il frutto di un bilanciamento particolarmente delicato tra i molteplici – e tra loro confliggenti – interessi pubblici e privati coinvolti dal processo medesimo»: ciò che «impone una cautela speciale nell’esercizio del controllo, in base all’art. 111, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale delle scelte processuali compiute dal legislatore, al quale compete individuare le soluzioni più idonee a coniugare l’obiettivo di un processo in grado di raggiungere il suo scopo naturale dell’accertamento del fatto e dell’eventuale ascrizione delle relative responsabilità, nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l’esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo. Sicché una violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. potrà essere ravvisata soltanto allorché l’effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza, e si riveli invece privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 12 del 2016, n. 159 del 2014, n. 63 e n. 56 del 2009)» (sentenza n. 260 del 2020, punto 10.2. del Considerato in diritto).

Ancora più di recente questa Corte ha precisato che la ragionevole durata è declinata dalla Costituzione e dalla CEDU «come canone oggettivo di efficienza dell’amministrazione della giustizia e come diritto delle parti, comunque correlati ad un processo che si svolge in contraddittorio davanti ad un giudice imparziale» (sentenza n. 111 del 2022, punto 7.1. del Considerato in diritto).

6.2.– È dunque alla luce di questi principi – enunciati con riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., ma evidentemente applicabili anche laddove si lamenti, al metro dell’art. 3 Cost., l’irragionevolezza di una disciplina proprio in relazione al suo effetto di dilatazione dei tempi di definizione del processo – che deve essere vagliato il diritto vivente oggetto delle censure del rimettente. Diritto vivente del quale – è appena il caso di precisarlo – questa Corte non può che prendere atto, non potendo sostituirsi alla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione delle disposizioni legislative, ed essendo piuttosto il proprio compito confinato alla verifica se il risultato di tale interpretazione sia compatibile con i parametri costituzionali evocati dal giudice a quo.

6.2.1.– Perno dell’argomentazione del rimettente è l’asserita inutilità della restituzione degli atti al pubblico ministero, allorché la possibile archiviazione per particolare tenuità del fatto sia stata prospettata alle parti all’udienza di cui all’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., e la persona sottoposta alle indagini non si sia opposta a tale esito. Nella prospettiva del giudice a quo, la complessiva disciplina disegnata dal legislatore del d.lgs. n. 28 del 2015 esige, in ogni fase e grado del processo, che tutti i soggetti processuali abbiano la possibilità di interloquire rispetto all’eventuale proscioglimento per particolare tenuità del fatto, ma non attribuisce ad alcuno un potere di “veto” rispetto a una valutazione che resta di esclusiva competenza del giudice. Una volta assicurato il pieno contraddittorio tra le parti, tramite la fissazione dell’udienza e l’invito a discutere in quella sede di tale possibile esito, risulterebbe irragionevole, in quanto foriera di un rallentamento non funzionale ad alcun apprezzabile interesse dei diversi soggetti processuali, la regola – cristallizzata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione di cui si è poc’anzi dato conto (supra, punto 5.3.) – che vieta al GIP, sotto pena di nullità, di disporre direttamente con ordinanza, all’esito dell’udienza, il proscioglimento per particolare tenuità del fatto.

6.2.2.– Questa Corte non è, tuttavia, persuasa da tale argomento.

Nelle pronunce riferite, la Corte di cassazione sottolinea come il legislatore del 2015 abbia disegnato, all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., uno specifico meccanismo procedurale per il proscioglimento per particolare tenuità del fatto in sede di indagini preliminari. Tale meccanismo prevede, da un lato, l’iniziativa del pubblico ministero, al quale spetta la prima valutazione dei presupposti della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.; e, dall’altro, la notifica preventiva di un avviso scritto alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, mediante il quale esse sono invitate a manifestare la propria eventuale opposizione nei successivi dieci giorni. L’effetto potenzialmente pregiudizievole per gli interessi di entrambi questi soggetti di un’archiviazione per particolare tenuità del fatto ha dunque indotto il legislatore ad assicurare un pieno contraddittorio su questo possibile esito, che deve essere preannunciato in termini espliciti dallo stesso pubblico ministero. Per l’esercizio di tale contraddittorio è, inoltre, espressamente previsto uno spatium deliberandi di almeno dieci giorni, onde consentire a ciascun soggetto processuale di compiere le proprie valutazioni in merito, anche consultandosi con il proprio difensore.

Questo schema legislativo, funzionale al pieno esercizio del diritto di difesa di entrambi i soggetti processuali coinvolti, verrebbe sensibilmente alterato ove si consentisse al GIP di disporre direttamente l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in difformità dalla richiesta del pubblico ministero e in esito a un’udienza fissata ai sensi dell’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., senza che sia stata previamente notificata alle parti la possibilità di una formula di archiviazione diversa da quella prospettata dal pubblico ministero, e sulla base soltanto di un contraddittorio sollecitato per la prima volta durante l’udienza.

Inoltre, se è vero che dopo l’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero non è più dominus del proscioglimento per particolare tenuità del fatto, non disponendo di alcun potere di veto rispetto al riconoscimento dell’esimente da parte del giudice, è anche vero che una pronuncia di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen., in qualunque fase procedimentale o processuale sia collocata, presuppone logicamente la valutazione che un reato, completo di tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, sia stato commesso dalla persona sottoposta a indagini o dall’imputato. L’intero sistema processuale vigente non consente, però, che tale valutazione sia compiuta ex officio dal giudice: è, invece, al pubblico ministero, e a lui soltanto, che spetta apprezzare in prima battuta se un reato sia stato commesso, e in caso affermativo esercitare l’azione penale, di cui egli ha il monopolio, sia pure sotto il controllo del giudice. Tant’è vero che, nello stesso contesto configurato dall’art. 409 cod. proc. pen., il GIP può – al più – ordinare al pubblico ministero di formulare l’imputazione, ma non può formularla direttamente, esercitando così l’azione penale in sua vece.

In effetti, la dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto presuppone normalmente il previo esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero; e la stessa richiesta di proscioglimento per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., come si è rilevato in dottrina, rappresenta qualcosa di assai prossimo al vero e proprio esercizio dell’azione penale, tale richiesta mirando a una pronuncia soltanto parzialmente liberatoria, con la quale si dà pur sempre atto dell’avvenuta commissione di un fatto di reato, ancorché in concreto non punibile per la particolare esiguità del danno o del pericolo cagionato.

Di talché, laddove il pubblico ministero abbia invece richiesto l’archiviazione ai sensi dell’art. 408 cod. proc. pen., ritenendo insussistente o comunque non sufficientemente provato il fatto di reato, è del tutto coerente con il sistema disegnato dal legislatore la soluzione interpretativa, cui è pervenuta la Corte di cassazione, di non consentire al GIP di surrogarsi al pubblico ministero e di apprezzare direttamente l’avvenuta commissione del fatto medesimo, anche soltanto al fine di dichiararlo non punibile ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.

Il sistema del codice di procedura penale, così come tutt’altro che irragionevolmente ricostruito dalla giurisprudenza di legittimità, esige insomma che in caso di dissenso del GIP sulla richiesta del pubblico ministero la parola torni a quest’ultimo per le determinazioni di sua competenza; e impone che tutti i soggetti processuali siano posti in condizioni di interloquire su tali eventuali determinazioni, contando sullo spatium deliberandi specificamente previsto dal legislatore all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. L’effetto di allungamento dei tempi processuali che ne deriva non può, allora, ritenersi sfornito di ogni legittima ratio giustificativa; e per tale ragione non entra in collisione né con il generale principio di ragionevolezza, né con quello della ragionevole durata del processo.

7.– Un secondo gruppo di censure investe il medesimo diritto vivente sotto i distinti profili, tutti parimenti riconducibili all’art. 3 Cost., dell’irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe e di irragionevole equiparazione di trattamento di situazioni diverse (punto 1.2.3. del Ritenuto in fatto).

Neppure queste censure sono fondate.

7.1.– Ad avviso del rimettente, la censurata giurisprudenza della Corte di cassazione produrrebbe anzitutto una irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi in cui il riconoscimento della non punibilità per particolare tenuità del fatto può avvenire previa audizione delle parti in camera di consiglio (in sede predibattimentale, ai sensi dell’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen.) e addirittura d’ufficio (nel giudizio di cassazione, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità citata dal rimettente).

I tertia comparationis evocati non sono tuttavia omogenei, dal momento che il pubblico ministero ha, in tutti quei casi, esercitato l’azione penale, avendo ritenuto sussistente il reato: ciò che, invece, non accade nell’ipotesi ora all’esame, in cui il rimettente vorrebbe che il GIP si sostituisse al pubblico ministero nella sostanziale contestazione di un fatto di reato, sia pure al solo fine di dichiararlo non punibile ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (supra, punto 6.2.2.).

7.2.– Il giudice a quo ritiene poi che il diritto vivente da lui censurato determini una indebita omologazione nel trattamento di ipotesi differenti, costringendo il GIP a disporre la celebrazione del processo sia per fatti connotati da disvalore significativo, sia per fatti di particolare tenuità.

Al riguardo, è però agevole replicare che – come prefigurato anche dalla giurisprudenza di legittimità sopra ricordata – il GIP, il quale non condivida la richiesta di archiviazione del pubblico ministero per infondatezza della notizia di reato, non è affatto tenuto a disporre la celebrazione del processo a carico della persona sottoposta alle indagini (o meglio, a disporre che il pubblico ministero formuli l’imputazione), ma ben può restituire gli atti invitando il pubblico ministero a considerare, altresì, la possibilità di richiederne il proscioglimento per particolare tenuità del fatto, con le forme indicate nell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen.; consentendo così a tutti i soggetti processuali di dispiegare ritualmente il contraddittorio su questa diversa formula di archiviazione.

7.3.– In terzo luogo, il rimettente denuncia una irragionevole disparità di trattamento per fatti di particolare tenuità, tra l’ipotesi in cui il pubblico ministero abbia proceduto nelle forme di cui all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. e quella in cui abbia richiesto l’archiviazione ai sensi dell’art. 408 cod. proc. pen.

Anche in questo caso occorre però sottolineare l’essenziale differenza che intercorre tra le due ipotesi, la prima delle quali caratterizzata da una richiesta del pubblico ministero che muove dal presupposto dell’apprezzamento, da parte di questi, dell’avvenuta commissione di un fatto di reato; richiesta che, sola, legittima il GIP a una pronuncia che, parimenti, presuppone l’avvenuta commissione di tale reato.

8.– Il giudice a quo ritiene, infine, che il diritto vivente censurato violi gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., costringendo il GIP a «imbastire un processo finalizzato all’applicazione di una pena virtualmente sproporzionata nell’an ancor prima che nel quantum, poiché da applicare ad un fatto che, in base ai criteri generali fissati dal medesimo legislatore, non ne è invece “bisognoso”», in violazione dei principi di ragionevolezza, proporzione, personalità della responsabilità penale e finalità rieducativa della pena (punto 1.2.1. del Ritenuto in fatto).

Nemmeno queste ultime censure sono, tuttavia, fondate, dal momento che – come appena rilevato (supra, punto 7.2.) – nulla impone al GIP di disporre che sia formulata un’imputazione, e che sia conseguentemente celebrato un processo, nel caso in cui il reato ascritto alla persona sottoposta alle indagini gli appaia di particolare tenuità.

D’altra parte, anche nell’ipotesi in cui il pubblico ministero richiedesse il rinvio a giudizio o, a seconda dei casi, disponesse la citazione diretta della persona sottoposta alle indagini, nulla vieterebbe poi al giudice di assolvere l’imputato proprio ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., evitando così di applicare una pena sproporzionata rispetto alla gravità del reato commesso.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 409, commi 4 e 5, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 411, commi 1 e 1-bis, cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 13, 25, secondo comma, 76 e 101, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Nola con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 409, commi 4 e 5, cod. proc. pen., in combinato disposto con l’art. 411, commi 1 e 1-bis, cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 14, terzo comma, lettera c), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, dal GIP del Tribunale ordinario di Nola con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2023.